Diario di una fuorisede

Fuorisede di lungo corso

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I miei suoceri sono fuorisede di lungo corso. 

Hanno passato i settant’anni, e si sono trasferiti qui all’inizio degli anni ‘80. È una storia come ne sentiamo molte: mio suocero aveva trovato lavoro qui, e la moglie lo ha seguito. Vivono nello stesso paese alle porte di Roma da oltre quarant’anni. Hanno comprato casa qui. Hanno lavoro e amicizie qui. I loro figli hanno frequentato qui le scuole e lavorano qui. Hanno lasciato le loro case che avevano poco più di vent’anni, e hanno passato molto più tempo nel Lazio che nella loro Campania. 

Questo li ha resi in un qualsiasi modo meno fuorisede? ASSOLUTAMENTE NO. Mia suocera, a dirla tutta, continua a esprimere il desiderio di tornarsene al suo paesino in provincia di Avellino. Anche se i suoi figli vivono e lavorano a Roma, a lei non importa. Per lei i suoi figli sono campani (e infatti comprendono perfettamente il dialetto, pur parlando un fluentissimo romano), perché il sangue prevale sul luogo in cui vivono.

Guardando loro, mi sembra di guardare me stessa nel futuro. 

Ricevono ancora pacchi da giù dai parenti premurosi. Ok, non dai genitori magari, che sono passati a miglior vita da un pezzo. Ma hanno zii e cugini che almeno 2/3 volte l’anno mandano salami, formaggi e pacchi di pasta. Io ho madre e sorella che regolarmente mi fanno arrivare pacchi così grandi da poter essere considerati aiuti umanitari.

Non hanno perso una virgola del loro accento campano. E qui io mi dichiaro sconfitta, perché la maggior parte del tempo parlo romanaccio. Salvo i momenti in cui la pugliesità scalpita per venire fuori, come i modi di dire o gli scleri di rabbia. Durante il Lucca comics una standista di Taranto mi ha detto esplicitamente “Il tuo accento romano non mi ha ingannato nemmeno per un secondo. Si sente che sei delle mie parti”. Quindi credo che tra di noi ci si riconosce. Sarà qualcosa nell’aria, o qualche “E” pronunciata più aperta del previsto.

A natale scorso sono stata a pranzo dai miei suoceri. Dall’antipasto al dolce, il menu era completamente campano. Per essere sicuro di trovarti ancora nel Lazio dovevi uscire di casa e ascoltare la gente per strada. La mia cucina è un buon mix dei due posti dove ho vissuto: so fare un’ottima carbonara, ma anche una perfetta pasta con le cime di rapa. A parte alcuni piatti specifici (i panzerotti sono sacri) non ho una vera e propria preferenze tra le due, ma probabilmente è dovuto al fatto che mi piace mangiare e basta, qualsiasi sia l’etnicità della cucina.

Anche per i miei suoceri, le vacanze servono per andare a trovare i parenti, partire con loro o accoglierli quando vengono in visita.

Io credevo che ad un certo punto un fuorisede si arrendesse al posto dove è andato a vivere. Mi basta guardare loro per scoprire che non è così, anzi. Quel legame col posto d’origine non si spezza mai. 

La differenza più grande tra me e loro, è che io ho scelto di andarmene. A 19 anni ho potuto prendere una decisione più o meno libera su cosa fare della mia vita. A casa avrei avuto qualcosa da fare. Non il lavoro dei miei sogni, ma sarei potuta restare lì. Invece come ogni adolescente ho fatto il mio bel colpo di testa e ho deciso di inseguire i miei sogni, realizzandoli (anche se a volte, nei momenti più bui, me ne dimentico).

Loro questa scelta non l’hanno avuta. C’era il lavoro a Roma, o il nulla. Non hanno potuto decidere liberamente, sono stati trascinati via dal loro luogo d’origine e forse per questo continuano a volerci tornare. 

Io invece la separazione dal sud me la vivo bene, e mi vivo con piacere le vacanze in famiglia. Nell’ultimo periodo, vivo serenamente anche i periodi di distanza che durano parecchio. Infatti, da brava fuorisede atipica, non torno a casa da più di un anno. 

Ma questa, come sempre, ve la racconto un’altra volta.

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